di Antonio Tortora
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Con il Disegno di Legge n. 2280, firmato dai senatori Amidei, Piccoli, Bertaccio, Floris e moltissimi altri, presentato al Senato giusto un anno fa il 9 marzo 2016, si fanno le pulci e i conti in tasca a una delle attività che, per ragioni inconfessabili di standardizzazione dei prodotti agroalimentari, di Codex Alimentarius, di immissione massiva di Ogm sui mercati, di burocrazia infinita, l'Unione Europea tecnocratica proprio non vuole che continui a esistere se non con un serrato e ossessivo controllo. E' bene chiarire che non stiamo parlando di una qualsiasi attività di ristorazione comparsa più di recente e poco diffusa a livello mondiale bensì di una tradizione antichissima, peculiare ed estremamente diffusa che non ha a che fare solo con un semplice impasto di acqua e farina cotto al forno e condito di pomodoro. Infatti non è un caso se la pizza viene identificata, universalmente e senza alcun dubbio nè incertezza, con la stessa città di Napoli intesa come topos antropologico derivante dalla narrazione storica della più arcaica Partenope, Palaiapolis e Neapolis, dunque dalle sue radici elleniche. Cosicchè ne è passata di acqua sotto i ponti sin da quando gli egiziani inventarono il pane preferendo il frumento all'orzo e a tutti gli altri cereali così come ne è passata di acqua sotto i ponti sin da quando il fuoco, prodotto in origine da eventi naturali e soltanto in seguito dominato, conservato e riprodotto dall'uomo attraverso lo sfregamento di pezzetti di legno o di pirite ferrosa colpita dalla selce, diventò indispensabile per tutta la specie umana. Fino a giungere alle notizie riportate da Plauto, nel III° secolo a.C., in cui affermava "Pulte non pane vixisse longo tempore Romanos" ovvero I Romani per lungo tempo vissero di polenta, non di pane. Ed è proprio dall'evoluzione dal pane e di altri prodotti similari che deriva la pizza napoletana ripercorrendo una lunga storia gastronomica che prevedeva la "stiacciata" cotta su pietra arroventata, il pane vero e proprio con il suo tipico impasto, la schiacciata ed infine la focaccia. Tuttavia per trovarci al cospetto di quella pizza napoletana che tutto il mondo conosce occorre attendere l'introduzione del pomodoro in Europa e in Italia nella seconda metà del '500 e l'utilizzo dello stesso, anche e soprattutto a Napoli, verso la fine del '700. Dunque, tornando per un attimo alle origini mitiche della pizza, ci piace ricordare il mito greco relativo al ratto di Persefone e il "tempio del pane" di Eleusi ma anche il culto romano di Cerere le cui sacerdotesse, anche quelle richieste per officiare nel sacro tempio di Roma, provenivano, per diretta derivavazione dai culti greci, esclusivamente da Napoli e da Velia; appare superfluo indicare l'importanza e il legame di Demetra e Cerere con il grano e dunque con la terra e la fertilità. Siamo quindi di fronte a un pasto sacro per le implicazioni religiose e rituali tramandate nel tempo, per i suoi significati simbolici sia pure inconsciamente ed ancora oggi riproposti, per la sua antropologica ancestralità riconosciuta, a livello popolare, soprattutto a Napoli. Per quanto riguarda il mito può bastare ma era necessario per far comprendere che molti secoli e finanche millenni di evoluzione creativa non possono e non dovrebbero mai essere regolamentati perchè appartenenti, vox populi, al patrimonio comune dell'umanità e ciò indipendentemente dai proclami annunciati dall'Unesco. Ma tornando all'oggetto del nostro intervento si tratta di un Disegno di Legge che, pur se presentato un anno fa, non fa altro che ricopiare tutti gli articoli da altri testi di proposte legislative presentate nel 2006 durante il governo Prodi II e, da altri testi presentati nel 2007 e nel 2008 durante il governo Berlusconi IV°. Cosicchè oltre che i contenuti il PD e il PDL si sono vicendevolmente copiati anche nella forma, in maniera pedissequa. Purtroppo i nostri politici, a corto di idee, smaniosi di legiferare su tutto per giustificare il loro lauti stipendi e i loro privilegi nonchè devoti alla causa della ipertassazione su tutte le attività possibili e immaginabili hanno scoperto il business della pizza e vogliono metterci le mani, al più presto. Ci auguriamo che ci ripensino visto che rovinano e distruggono ogni cosa su cui mettono le mani.
Tratto da http://www.napolidavivere.it |
All'articolo 3 del Decreto vengono chiariti i requisiti per il diploma di qualifica di pizzaiolo e si parla di iscrizione alla Camera di Commercio, di associazioni specifiche che gestirebbero un certo potere, di esami teorico-pratici, di corsi di 120 ore fra cui scienze dell'alimentazione, igiene e somministrazione degli alimenti, lingue straniere e soprattutto inglese (è bene sottolineare che tra i senatori firmatari quasi nessuno conosce le lingue straniere tantomeno l'inglese stando a una recentissima inchiesta realizzata ad hoc da Le Iene); si parla inoltre di un diploma con validità quinquennale, corsi di aggiornamento, Albo nazionale dei pizzaioli professionisti e naturalmente di contributi obbligatori da versare con periodicità annuale all'Ordine Nazionale. Si tratta di tutte cose che, a prima vista, appaiono come ottime e valide in un contesto di regolamentazione capillare e invadente, patrocinata dall' Unione Europea e dai recenti governi nazionali, completamente asserviti alla cieca burocrazia europeista; tuttavia, a nostro avviso, si tratta di creare un format in cui inserire un'attività che, per sua natura, per storia e tradizione, dovrebbe essere lasciata libera di incidere nel tessuto popolare della città di Napoli e dell'intero Paese. Gli illustri senatori evidentemente non sono a conoscenza delle radici leggendarie della pizza, del fatto che un vero pizzaiolo parla la lingua napoletana e non ha certo bisogno di conoscere lingue straniere visto che tale lingua è compresa in tutto il mondo per la sua musica e per la sapiente gestualità che accompagna l'eloquio; i senatori non sanno che alcuni segreti del mestiere non sono e mai potranno essere oggetto di trattazione scientifica nè accademica e non sono nemmeno rivelabili nè comprensibili se non allo sguardo attento degli avventori che osservano il pizzaiolo agire con sapiente maestria addomesticando gli ingredienti della più antica e conosciuta ricetta del mondo. In effetti mangiare la pizza consiste di per sè in una rappresentazione artistica su un palcoscenico di un vero e proprio teatro dove si celebra un rito fatto di tavoli di marmo e di piastrelle bianche alle pareti, di un forno a legna che catalizza lo sguardo di tutti i partecipanti al rito colletivo, di ingredienti sistemati in bella mostra al di là di vetrinette trasparenti ed infine di quei profumi che, già in lontananza, denunciano la presenza di uno dei tanti templi del sapore che si possono incontrare soprattutto nei vicoli della città antica, ma non solo. Intanto le normative più recenti cercano di far scomparire i forni a riverbero fabbricati con mattoni refrattari impastati con argilla provenienti, di norma, dai distretti produttivi dell'Emilia o, meglio ancora, da quelle poche aziende artigiane che ancora sopravvivono vicino Sorrento e più precisamente a Maiano un rione di Sant'Agnello. Qui, per la cronaca e in onore di una tradizione che risale almeno al quattordicesinmo secolo, si producono ancora a mano mattoni refrattari per forni a riverbero in fornaci vecchie di oltre quattrocento anni e che vengono esportati a beneficio delle migliori pizzerie statunitensi e nordeuropee. A nostro avviso i criteri per formare un buon pizzaiolo non possono essere codificati e certificati da enti amministrativi, da scuole "specializzate" oppure elaborati attraverso inutili corsi di inglese, amenità varie ed ancora con esami alla Master Chef. Bensì si tratta di conservare, con la pratica e l'operatività, le tecniche elaborate da quelle numerose famiglie di pizzaioli di prima generazione che sin dalla fine del '700 condirono con i loro cognomi il delicato impasto: Triunfo, Mattozzi, Capasso, Pace, Nappi, Brandi, Lombardi, Ambrosio, Calicchio e molti altri. Questi nuclei familiari rappresentano storicamente e gastronomicamente i pilastri su cui poggia l'arte della pizza nei secoli e giunge sino a noi con Ciro a Santa Brigida, D'Angelo, Attanasio, la pizza a metro di Gigino a Vico Equense ed infine Acunzo, Di Matteo, Sorbillo, Fresco, Gorizia, Starita, da Michele, da Attilio e nomerosissimi altri che sarebbe impossibile elencare in questa sede. Come si fa a insegnare l'arte dell'impasto e della proporzione equilibrata degli ingredienti? Come si può spiegare l'uso magistrale della pala di ferro con cui si sposta il panello di pasta all'interno del forno a legna con l'intento di esporre la pizza al giusto calore per contatto, per correnti d'aria calda e per riverbero? Ed ancora come si fa a far capire ai legislatori e ai tecnocrati che il forno elettrico, oggi imposto per legge a chi apre nuove pizzerie, non giova alla pizza perchè non aggiunge il "sapore di forno" essenziale per trasferire l'aroma della legna di latifoglie nelle piccole camere d'aria che si formano all'interno del cornicione? La stessa architettura del fuoco deve essere materia ben conosciuta dal maestro pizzaiolo che, come un forgiatore, domina la fiamma per le avvampate iniziali che danno solidità iniziale alla pizza; che, come un abile alchimista, impedisce lo stress termico che potrebbe letteralmente bruciare gli ingredienti dell'impasto; che, come uno sciamano previdente, impedisce all'olio di friggere scongiurando danni epatici all'avventore e un'infinità di altri accorgimenti che ben difficilmente troveremo scritti da qualche parte se non nel patrimonio genetico di chi, al banco del pizzaiolo, ci lavora quotidianamente con passione e sapienza. Nessun testo di legge può contribuire a fare luce sui misteri tradizionali e popolari dell'arte della pizza non potendo riprodurre la splendida coreografia del pizzaiolo che condisce e prepara l'impasto e del partner che inserisce e muove la pizza nel forno con la famosa pala tonda scambiandosi voci ed espressioni quasi musicali codificate in secoli di gesti; non potendo riprodurre quel profumo intrigante che aleggia in prossimità della pizzeria e che fa aprire lo stomaco provocando una fame immediata e sacrosanta. Inoltre non può riprodurre quella sensazione di sapore pur senza mangiare ottenuta semplicemente guardando lo spettacolo del fuoco e la danza gestuale di colui che lancia l'impasto in aria per riprenderlo subito dopo con maestria e velocità nonchè la mirabile e colorata composizione di origano, basilico, olio, aglio, pomodoro, mozzarella, cornicione bruciacchiato. Certo ci risponderanno che non sono questi gli intenti del Disegno di Legge, che tutto ciò viene fatto per difendere la pizza napoletana ma noi non ne siamo convinti e non possiamo fare a meno di preoccuparci per il futuro della pizza napoletana tradizionale e di parte dell'identità partenopea che andrebbe a scomparire a favore delle solite multinazionali che già da decenni stanno rilevando pizzerie italiane in tutto il mondo per conservarne i marchi prestigiosi ma anche per imporre i loro prodotti "chimici" studiati a tavolino e uguali dappertutto. Tali multinazionali hanno da tempo adocchiato questo prezioso segmento economico e produttivo pertanto, attraverso le potenti lobbies europeiste e la complicità di politici ignoranti e forse in malafede, stanno cercando di appropriarsene. La creativià e la tradizione vanno difesi con la spontaneità partenopea e non possono essere regolamentate e burocratizzate altrimenti finiranno col diventare un algoritmo in una banca dati europea, come tutto il resto.
Completamente d'accordo! Altri tecnocrati fanno la stessa cosa con la gastronomia francese e prodotti tipici della terra! La cucina è una parte dell'anima di un popolo.
RispondiEliminaLa pizza napoletana risale alle tempi antichissimi. No toccarla! Giù le mani!
Carissima mi fa piacere che approvi la mia teoria e hai detto la parola giusta:"tecnocrati"; una parola che ci aiuta a capire in mano a chi stiamo. Questi signori stanno distruggendo tutto ciò che rappresenta le culture popolari, gastronomia compresa,obbligandoci al meticciato culturale e a una vera e propria schiavitù nei confronti di corporation e multinazionali che hanno fatto dell'alimentazione chimica e artificiale un vero e proprio cavallo di battaglia e un immenso business sulla pelle dei popoli.
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