Vesuvio



Uno studio scientifico dell’Osservatorio Vesuviano – INGV (I° edizione febbraio 2004)

Un articolo del National Geographic (settembre 2007) anche in cartaceo e in lingua italiana
VESUVIO: DENTRO IL VULCANO - Parte I
Coordinatole: Giuseppe Mastrolorenzo
A cura di: Giuseppe De Natale, Lucia Pappalardo, Pier Paolo Petrone,
Immacolata Ricciardi, Sergio Rossano,  Claudia Troise
I° edizione febbraio  2004
OSSERVATORIO VESUVIANO - ISTITUTO NAZIONALE DI GEOFISICA E VULCANOLOGIA
VIA DIOCLEZIANO, 328 
-80124 NAPOLI - TEL.081.6108336 -Fax 081.6108350
sito web: www.ov.ingv.it - email: mastro@ov.ingv.it




Un’ottima opportunità per saperne di più su un tema scottante, che genera ansie e paure in tutte le popolazioni vesuviane, quindi oltre 700mila persone da evacuare fra la provincia di Napoli e Salerno stando al nuovo Piano di evacuazione elaborato all’inizio dello scorso anno. Oltre un milione e mezzo di persone da evacuare nella peggiore delle ipotesi eruttive con 135 Comuni e altre Municipalità aggiunte alla Napoli che già potrebbe essere coinvolta almeno stando al piano di emergenza precedente. Un vero rompicapo condito da critiche e piani stradali insufficienti, gemellaggi improbabili e vie di fuga inesistenti, opere edilizie previste in zona rossa (come ospedali) e mancanza di informazione capillare e diretta a ogni singolo cittadino. L’unico modo per farsi un’idea non definitiva, ma di certo più consapevole, consiste nell’andare a leggersi studi approfonditi e articoli di divulgazione scientifica scritti da studiosi competenti e da giornalisti che davvero desiderano correttamente informare. Di seguito ne segnaliamo un paio che, a nostro avviso, anche se non aggiornati, rappresentano comunque lo stato dell’arte e quanto di meglio si possa trovare sull’argomento:

L'Articolo è tratto integralmente da National Geographic Italia, VESUVIO L'ERUZIONE CHE VERRA' di Stephen S. Hall fotografie di Robert Clark

Segnato da eruzioni minori, il Vesuvio incombe minaccioso su Napoli, che dista soli 15 km dal cratere. Una grossa esplosione potrebbe disintegrare il cratere, devastando l’intera regione.




Vesuvio, l'eruzione che verrà



Il primo assordante boato riecheggiò per la pianura campana, presto seguito da una grandine rovente di roccia vulcanica.  L’uomo e la donna abbandonarono in fretta il villaggio e si misero in fuga verso est, risalendo il morbido pendio di una collina verso la vicina foresta, che doveva sembrare loro un possibile rifugio. La donna aveva all’incirca vent’anni, l’uomo era sui 45. Un violento rovescio di pietrisco di pomice misto a sassi incandescenti, capaci di sfondare il cranio e ustionare la pelle, oscurò la loro fuga. Probabilmente i due pensarono che su di loro si stesse abbattendo la fine del mondo. 
Nello stesso istante altre migliaia di persone fuggivano per mettersi in salvo, lasciando sul terreno, morbido per la cenere e il fango vulcanico, le impronte della loro disperazione, che sarebbero state scoperte solo migliaia di anni dopo. Le persone le cui orme portano a nord o nord-ovest scelsero una strada che probabilmente salvò loro la vita; coloro che, come la ragazza e l’uomo, si diressero a est, verso l’odierna Avellino, andarono senza saperlo verso la morte sicura. Per loro sfortuna, infatti, andarono dritti verso il centro di un’area di ricaduta che da lì a poco sarebbe stata sepolta da uno strato di pomice dello spessore di un metro. Flagellati dalla pioggia di ceneri e lapilli, terrorizzati dall’oscurità che era improvvisamente calata intorno a loro, e respirando sempre più a fatica, i due - sicuramente uniti dalla disperazione, se non da qualche antica forma di matrimonio - cominciarono a rallentare. E dopo aver risalito con grande sforzo una parte della collina, caddero infine al suolo, negli ultimi spasimi della morte per asfissia.
«Probabilmente non riuscivano a vedere a più di un metro», spiega Giuseppe Mastrolorenzo, vulcanologo dell’Osservatorio Vesuviano. In una stanza del Museo di Antropologia dell’Università di Napoli, lo studioso si china su una vetrina che contiene lo scheletro della ragazza, perfettamente conservato, disteso su un letto di pomice proprio come è stato ritrovato.

«Nell'eruzione che seppellì Pompei ed Ercolano, le morti furono istantanee. La gente non si rese conto di cosa stesse accadendo», aggiunge Pier Paolo Petrone, l’antropologo che ha recuperato e analizzato lo scheletro. «La ragazza ebbe sorte più tragica, perché non morì sul colpo». In un ultimo, inutile gesto di protezione, l’uomo e la donna alzarono le braccia a ripararsi il volto, conservando così per l’eternità l’espressione di quel tormento.

Le ossa restarono nello stesso punto fino al dicembre del 1995, quando, durante un sopralluogo per la costruzione di un gasdotto, nei dintorni di San Paolo Bel Sito (una cittadina a circa 16 chilometri dal Vesuvio in direzione nord-est), un’équipe di archeologi scoprì lo scheletro della donna, sepolto tra le radici di un nocciolo. Poco dopo, anche i resti dell’uomo furono riportati alla luce. In una terra martoriata dal crimine come l’hinterland napoletano, chi ritrova dei resti umani spesso non sa se chiamare la Soprintendenza archeologica o la squadra omicidi. Ma in questo caso non c’erano dubbi. Gli scheletri erano stesi in un letto irregolare di roccia vulcanica ricoperto di pomice, segno geologico molto preciso del momento della loro morte. Occorreva solo un vulcanologo che leggesse le stratificazioni rocciose. Appena avuta notizia del ritrovamento, Petrone si precipitò sul sito. Le autorità gli diedero esattamente due pomeriggi di tempo per estrarre le ossa. «È stato un miracolo se siamo riusciti a salvarle», commenta lo studioso.

Gli scheletri di San Paolo Bel Sito sono stati il punto di partenza di un progetto che ha messo insieme vulcanologia, archeologia e antropologia fisica, in una sorta di CSI: Vesuvio. In dieci anni questa ricerca ha permesso di riscrivere la storia del vulcano, alimentando con nuove previsioni pessimistiche il già infuocato dibattito scientifico sui pericoli di un’eventuale eruzione. 

L’uomo e la donna sepolti, infatti, non stavano fuggendo dalla famosa eruzione del 79 d.C., che seppellì Pompei ed Ercolano. Vivevano, invece, in uno dei numerosi villaggi preistorici che durante l’Età del Bronzo costellavano quella bella e fertile pianura. A ucciderli fu dunque un'eruzione più antica, e, a quanto risulta, ancora più violenta. L’eruzione, detta “delle pomici di Avellino”, avvenne intorno a 3.780 anni fa, e secondo alcuni ricercatori rappresenterebbe lo spaventoso prototipo di una calamità che, in futuro, potrebbe devastare la stessa Napoli. 


Dal 1995 Petrone e Mastrolorenzo hanno percorso in lungo e in largo le campagne della regione, precipitandosi sui siti appena scoperti per recuperare i reperti prima che fossero rimossi o coperti nuovamente di terra. Analizzando migliaia di impronte di vittime in fuga rimaste impresse nella cenere vulcanica, o studiando un intero villaggio preistorico, perfettamente conservato (e oggi smantellato), che gli abitanti abbandonarono “con il pranzo ancora in tavola”, i due studiosi hanno ricostruito un quadro antropologico e vulcanologico dell’eruzione di Avellino, gettando nuova luce sulla potenza vulcanica e l’impatto ambientale del Vesuvio. Con la loro ricerca, hanno “dato voce” agli scheletri di San Paolo Bel Sito, e quella voce lancia un duro avvertimento a Napoli e alla sua area metropolitana di oltre tre milioni di abitanti: attenti, perché un’eruzione di potenza simile potrebbe avvenire di nuovo, e forse (in tempi geologici) anche molto presto.


LA PRIMA POMPEI

Le antiche popolazioni erano attratte dalla pianura campana per gli stessi motivi che oggi la rendono attraente anche per noi: il clima mite, la vicinanza al mare (e ai prodotti della pesca), il fertile suolo vulcanico, forse anche la bellezza che avrebbe poi conquistato tanti scrittori, da Virgilio a Stendhal. Molto prima del mitico sbarco di Enea in Italia, mille anni prima che i Greci si stabilissero a Cuma e instaurassero il proprio dominio su tutta la pianura, colonizzatori preistorici, discesi dai vicini Appennini, avevano cominciato a prendere possesso di quelle terre, coltivando cereali e allevando greggi.

In seguito i Greci si spostarono a est, da Cuma a Neapolis, la “città nuova”, situata lungo la costa a poca distanza da dove sorge la Napoli odierna. I resti di Pompei ed Ercolano, preservati in tutto il loro splendore, ci danno un’idea molto precisa di come si vivesse all’epoca dei Romani. Ma la terra campana, benché tanto battuta, continua a svelare i suoi segreti: un frammento per volta, Mastrolorenzo e Petrone, assieme alla loro collega Lucia Pappalardo, sono riusciti a ricostruire un ricco spaccato di un’età ancora più antica.

Quasi tutto è venuto alla luce per caso. Nel maggio del 2001, vicino a un desolato incrocio invaso da erbacce nell’immediata periferia di Nola, un gruppo di operai dava inizio agli scavi per le fondamenta di un supermercato. Un archeologo della Soprintendenza di Napoli notò diverse tracce di legno bruciato a circa un metro di profondità nel terreno, segno di un precedente insediamento umano. Poi, a circa sei metri di profondità, cominciarono a emergere i resti di un villaggio dell’Età del Bronzo in perfetto stato di conservazione.

Nei mesi successivi lo scavo ha portato alla luce tre grosse abitazioni preistoriche: capanne a forma di ferro di cavallo, in cui erano nettamente demarcati l’ingresso, la zona giorno e l’equivalente di una cucina. Sono stati trovati decine di vasi, piatti di terracotta e rozzi contenitori a forma di clessidra in cui c’erano ancora tracce fossilizzate di mandorle, farina, frumento, ghiande, noccioli d’oliva, e persino funghi. 

Le stanze erano separate da semplici tramezzi, e una delle capanne presentava qualcosa di simile a un soppalco. Sul cortile esterno erano rimaste impresse le orme di capre, pecore, bovini e maiali, oltre a quelle dei loro proprietari umani. All’interno di un’area recintata, che includeva anche una sorta di ovile, giacevano gli scheletri di nove capre gravide. Un altro scheletro, quello di un cane evidentemente terrorizzato, era accucciato sotto la gronda di un tetto. A conservare questo villaggio preistorico, lasciandone un calco perfetto fino ai minimi dettagli, come le foglie usate per rivestire i tetti o le granaglie contenute nei recipienti delle cucine, furono la ricaduta di ceneri, il flusso piroclastico e l’ondata di fango prodotti dall’eruzione di Avellino. Claude Albore Livadie, l’archeologo francese che ha pubblicato il primo rapporto sul sito di Nola, l’ha ribattezzato “la prima Pompei”.

Gli archeologi della Soprintendenza effettuarono gli scavi tra maggio e giugno del 2001. Accorsi a Nola, Mastrolorenzo e Pappalardo raccolsero campioni di cenere e di depositi vulcanici da analizzare per ricostruire la portata dell’eruzione. A questo punto però, il racconto della scoperta scientifica si trasforma in una sorta di opera buffa non insolita nel mondo dell’archeologia italiana. Il proprietario del terreno ha cominciato a protestare perché riprendesse la costruzione del supermercato o, in alternativa, gli fosse accordato un risarcimento per il ritardo nei lavori. Gli archeologi della Soprintendenza si sono affrettati a portare a termine gli scavi e a portar via tutti gli oggetti. Alla fine, il supermercato non è stato più costruito, e oggi tutto quel che rimane del sito è una fossa scavata nel terreno, con le fondazioni delle pareti delle capanne appena visibili. Una piccola insegna scolorita che annuncia la “Pompei della preistoria” penzola malinconicamente da un cancello chiuso con un lucchetto.

Il desolante copione andato in scena a Nola si è ripetuto diverse volte. Nel 2002, durante i lavori per la costruzione di una struttura di supporto per la base di Napoli della Marina americana, un altro villaggio preistorico sepolto dalle ceneri è venuto alla luce nei pressi di Gricignano d’Aversa. Secondo Mastrolorenzo era ancora più esteso del sito di Nola, con tracce di molte capanne delle Età del Rame e del Bronzo. Ma gli archeologi incaricati di sorvegliare i lavori «hanno fatto una rapida “documentazione” del sito», racconta sarcasticamente lo studioso, «e poi tutto è andato distrutto». 

Ancora: nell’estate del 2004, durante la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità tra Roma e Napoli, nei dintorni di Afragola sono state ritrovate migliaia di impronte umane. L’analisi geologica ha stabilito che a lasciarle erano stati uomini dell’Età del Bronzo che scappavano dall’eruzione di Avellino. Mastrolorenzo, Petrone e Pappalardo si sono precipitati sul posto per fotografare i vividi resti di quell’antico terrore.
Malgrado la perdita di questi siti, nella primavera del 2006 i tre studiosi italiani, coadiuvati dal vulcanologo americano Michael Sheridan, hanno illustrato le loro scoperte sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) suscitando grande interesse nella comunità scientifica mondiale. L’importanza della loro ricerca va ben al di là della semplice documentazione archeologica. L’eruzione delle pomici di Avellino, scrivono gli studiosi, “causò un collasso socio-demografico che portò all’abbandono dell’intera area per secoli”. I nuovi ritrovamenti, corredati da simulazioni al computer, mostrano che un'eruzione della portata di quella di Avellino scatenerebbe un’ondata concentrica di distruzione capace di devastare Napoli e buona parte del suo hinterland. 


1780 A.C.: L’ESPLOSIONE 
Sono molti i modi in cui un essere umano può morire a causa dell’eruzione di un vulcano, e un’esplosione come quella che il Vesuvio scatenò nel 1780 a.C. ne offre un cupo e pressoché completo inventario.

«Nelle prime ore dell’eruzione di Avellino cadde del materiale come questo», spiega Mastrolorenzo, poggiando due buste trasparenti piene di residui vulcanici sulla scrivania del suo ufficio all’Osservatorio Vesuviano. Una delle buste contiene una sottile polvere bianca, la cenere che ammantò tutta l’area di ricaduta; l’altra è piena di piccole pietre, del diametro di pochi centimetri. Alcune sono pomici, ciottoli porosi, pesanti più o meno come una pallina da ping-pong; altre sono sassi densi e duri: i lapilli. «Queste sono più leggere dell’acqua; galleggiano», dice Mastrolorenzo, prendendo in mano un pezzo di pomice. «Ma queste», continua, sollevando un lapillo, «queste cadevano a una velocità di quasi 145 chilometri l’ora».
Le prime tracce dell’eruzione di Avellino emersero agli inizi degli anni Settanta, quando i vulcanologi identificarono depositi di pomice al di sotto degli strati lasciati dall’eruzione del 79 d.C.. Ma solo in questi ultimi anni Mastrolorenzo, Pappalardo e i loro colleghi hanno ricostruito quell’evento nel dettaglio, grazie all’analisi scrupolosa di ogni tipo di materiale: dai depositi di cenere, spessi oltre un metro, portati alla luce nel corso dei lavori stradali, a frammenti di cristalli vulcanici dello spessore di pochi micron, esaminati al microscopio elettronico a scansione.
Ci sono eruzioni nelle quali la lava si riversa in pittoreschi torrenti che scorrono lentamente. Nel caso di un evento come quello di Avellino, invece, il condotto del vulcano è talmente ostruito di roccia solida che per perforare la superficie occorre che più in basso, nella camera magmatica, la pressione cresca fino a livelli altissimi. Quando questo avviene, la violenza dell’esplosione scaraventa la roccia liquida nell’aria a una velocità tale da infrangere la barriera del suono, provocando un gigantesco boato. 

L’eruzione di Avellino scaraventò nella stratosfera quasi 100.000 tonnellate al secondo di roccia surriscaldata, scorie e ceneri. La colonna raggiunse un’altezza di circa 35 mila metri, più o meno tre volte la quota di crociera degli aerei di linea. Mentre si innalzava, questa spaventosa nube di materiale andava allargandosi alla sommità, assumendo la classica forma simile alla chioma di un pino mediterraneo. Fu così che Plinio il Giovane per primo la descrisse in una lettera a Tacito, raccontando dell’eruzione che aveva sepolto Pompei: il “pino vulcanico” è, appunto, un tratto distintivo delle cosiddette eruzioni pliniane. 

All’inizio, i venti dominanti che soffiavano da ovest trasportarono gran parte del materiale in direzione nord-est, verso Nola e Avellino: nel giro di alcune ore si accumularono depositi di pomice e lapilli alti fino a due metri e mezzo. La colonna di cenere restò sospesa nell’aria a lungo, forse anche per 12 ore; poi collassò, innescando l’apocalittica sequenza di eventi che rendono l’eruzione pliniana uno dei disastri naturali più letali che possano verificarsi sulla Terra. 
Quando una colonna pliniana ricade su se stessa crea un flusso piroclastico: una rovente e turbinosa valanga di detriti che si rovescia lateralmente dai fianchi del vulcano. Questa nube incandescente può percorrere molti chilometri, inizialmente a grande velocità. Sono pochi gli esseri umani che hanno potuto assistere da vicino a un flusso piroclastico, e ancora meno quelli che sono sopravvissuti, ma molti di noi hanno per sempre impressa nella memoria un’immagine che può dare l’idea della terrificante potenza del fenomeno: il flusso piroclastico, infatti, ha diverse proprietà fisiche in comune con le enormi nuvole di polvere e ceneri prodotte dal crollo delle Torri gemelle, l’11 settembre del 2001. 

In più, il flusso piroclastico trasporta materiale che in precedenza è stato “cotto” all’interno di una camera magmatica sotterranea, fino a raggiungere una temperatura di 900 °C. Nelle fasi iniziali dell’eruzione di Avellino, il flusso era istantaneamente letale, specie nelle aree più vicine al Vesuvio. Un vento arroventato, soffocante, avanzava a circa 385 chilometri orari, toccando temperature non inferiori ai 480 °C e trattenendo abbastanza calore da far bollire l’acqua a 15 chilometri di distanza dalla bocca del vulcano. 

«Forse sotto i 93 gradi si può sopravvivere per qualche secondo, se l’onda passa rapidamente», fa notare Mastrolorenzo. «Ma anche chi resistesse al calore sarebbe destinato a soffocare per le polveri sottili presenti nell’aria. Tutta la campagna intorno al Vesuvio fu sepolta da questa polvere, che raggiunse uno spessore di 20 metri a cinque chilometri dal cratere, e di 25 centimetri in un raggio di 24 chilometri. Bastano 20 centimetri di cenere per far crollare anche il tetto di una casa moderna».

L’altissima temperatura del flusso piroclastico spiega anche alcuni dettagli della grande eruzione successiva, quella di Pompei ed Ercolano. In uno studio pubblicato nel 2001 sulla rivista Nature, Petrone e Mastrolorenzo, assieme ad altri colleghi italiani e inglesi, illustrano la sorte di centinaia di persone che avevano cercato scampo in 12 “fornici”, ambienti a volta usati come magazzini portuali e rimesse per le imbarcazioni che si aprono sulla spiaggia di Ercolano. I fuggiaschi morirono tutti all’istante, investiti da un flusso che toccava i 500 °C, vaporizzando in pochi secondi gli indumenti e le carni.


Petrone e Mastrolorenzo hanno tracciato una cruda ricostruzione degli ultimi istanti di vita dei malcapitati accalcati all’interno dei fornici 5, 10 e 12. Con ogni evidenza, il calore portò a ebollizione il tessuto cerebrale, che schizzò fuori in piccole esplosioni, lasciando sulle ossa i segni bluastri tipici delle bruciature. L’umidità prodotta dall’evaporazione della carne e del sangue, unita alla cenere vulcanica, creò poi un materiale protettivo, quasi una specie di intonaco, che ha preservato le ossa: dalla posizione degli scheletri i due ricercatori hanno potuto stabilire che le vittime dei fornici morirono all’istante. 

Ma il flusso piroclastico è solo il primo colpo del tremendo “uno-due” sferrato dal collasso di una colonna pliniana. Quando l’enorme quantità di cenere solida e detriti si mescola al vapore alimentato dalle falde acquifere sotterranee, si scatena un violento microclima: furiosi temporali e piogge torrenziali che producono abbondanti colate di fango. La cenere che ricade nei fiumi crea altre colate di fango, che riempiono le valli fluviali per molto tempo dopo la fine dell’eruzione.«Il fango fa più vittime dell’eruzione», dice Mastrolorenzo. «La colata avanza con una forza tale da spostare le case di centinaia di metri».

Esplosione, ricaduta, collasso della colonna, flusso piroclastico, colata di fango: in questa classica sequenza di furia pliniana, l’eruzione di Avellino cambiò il volto della pianura campana, come se gli dei avessero deciso di raschiarla, scavarla e rimodellarla con una gigantesca cazzuola. Analizzando la struttura dei depositi e le tracce visibili nel diverso spessore delle stratificazioni, i vulcanologi hanno potuto stabilire che in quella sola eruzione il Vesuvio scatenò almeno sei cicli di flusso e colata: sei scariche di vento infuocato seguite da sei furiosi torrenti di fango, che distrussero qualunque cosa in un raggio di circa 15 chilometri dal cratere del vulcano. Il cataclisma immediato durò probabilmente meno di 24 ore, ma bastò a trasformare un paesaggio idilliaco in un deserto monocromatico, che sarebbe rimasto inabitabile per tre secoli.

VIVERE SOTTO IL VULCANO
La strada che si inerpica da Ercolano  fino ai 1.281 metri della cima del Vesuvio svela un altro dei modi in cui un essere umano può morire sulle pendici del vulcano: sotto le ruote di uno degli innumerevoli pullman turistici che, tra una sbandata e l’altra, procedono lungo i tornanti. Sono ormai lontani i tempi in cui vigorosi giovanotti napoletani portavano su a forza di braccia personaggi famosi seduti in portantina: come Goethe, che giunto alla fine del ripido sentiero descrisse “una montagna dell’inferno che si innalza in mezzo al paradiso”. Oggi il paradiso è riuscire a trovare posto nell’affollatissimo parcheggio.


Dopo aver acquistato il biglietto (la cima del vulcano fa parte di un parco nazionale), si procede a piedi lungo un sentiero che serpeggia tra le ceneri del cono vulcanico, ricche di ferro e dal caratteristico color ruggine. Si superano diversi negozi di souvenir, e i piloni di cemento della funicolare oggi abbandonata (la sua inaugurazione, alla fine dell’Ottocento, fu celebrata dalla canzone Funiculì funiculà, e finalmente si raggiunge il bordo del cratere. Da qui, nelle giornate limpide, lo sguardo può spaziare da Capri e la penisola sorrentina a sud, a Napoli a nord-ovest, fino alle stesse Pompei ed Ercolano, vittime della potenza geofisica che per il momento è contenuta sotto i nostri piedi. Dopo la devastante eruzione subpliniana del 1631, il Vesuvio ha adottato una condotta più benevola: tra il Settecento e l’inizio del Novecento eruttò più volte, ma producendo soprattutto copiose colate di lava. Mastrolorenzo ricorda i racconti sull’eruzione del 1906, quando, a Napoli,  suo nonno dovette spazzare via la cenere dal tetto. L’ultima eruzione risale al 1944: da allora, il condotto è ostruito, e nessuno che abbia meno di 63 anni ha mai visto il vulcano in azione. All’idea che il Vesuvio è ancora attivo, gli abitanti della zona reagiscono con filosofia, o, in termini psicologici, con la rimozione: ignorano il pericolo e, forse ancor più che in altre parti d’Italia, vivono alla giornata con una sorta di serafico fatalismo.
Gennaro Cardoncello è una delle persone che trascorrono più tempo nelle immediate vicinanze del vulcano. È un giovane affabile e flemmatico che gestisce l’ultimo esercizio commerciale prima del cratere: una stupefacente parata di souvenir di pietra vulcanica (Buddha, la Pietà, le tre Grazie, rane e civette). Avverte mai i piccoli tremori che, secondo gli esperti, segnalano l’imminenza di un’eruzione? «Forse, qualche volta, ma non è poi un gran problema», risponde Gennaro; poi si stringe nelle spalle e cambia argomento, tirando fuori una bottiglia di Lacryma Christi, il vino bianco prodotto con le uve che traggono il loro gusto intenso dal ricco suolo vesuviano.

Fiumi di turisti si inerpicano sul sentiero, tra “oooh” e “aaah” di ammirazione per il panorama da cartolina o per la vista che si gode affacciandosi dal bordo del cratere: dal fondo, 245 metri più in basso, si leva solo qualche fumarola che manda nell’aria il suo sgradevole odore. Solo in pochi si fermano a pensare all’enorme serbatoio di roccia fusa che ribolle sotto i loro piedi, a quasi 10 mila metri di profondità; o ad osservare quel che resta del Monte Somma, cratere più vasto e più antico, che attira lo sguardo - e, cosa più importante, incanalerebbe eventuali futuri flussi piroclastici - in direzione nord-ovest, verso l’area metropolitana di Napoli. All’epoca dell’ultima eruzione pliniana, la pianura sottostante era abitata da alcune migliaia di Romani gaudenti; oggi la sola Napoli ha più di un milione di abitanti, e altre centinaia di migliaia vivono nei centri che si trovano tra la città e il cratere.

In una giornata chiara, anche con un modesto binocolo, è possibile distinguere dal bordo del cratere la mole imponente del Maschio Angioino, la fortezza che segna il cuore geografico e simbolico della città. Qualche giorno dopo, Mastrolorenzo mi conduce nei sotterranei del castello, e mi indica un deposito di pomice e ceneri vulcaniche dello spessore di circa 75 centimetri. Proviene dall’eruzione di Avellino, spiega.

Ne parlo con Michael Sheridan, il vulcanologo della Università di Buffalo che collabora con Mastrolorenzo, è un esperto di eruzioni catastrofiche nelle vicinanze di centri urbani densamente popolati. Ha studiato l’eruzione del 1902 del Monte Pelée, sull’isola della Martinica, che devastò la città di St. Pierre, e tiene sotto controllo il Cotopaxi, un vulcano attivo che minaccia più di un milione di persone sugli altopiani andini dell’Ecuador. Non conosceva quel deposito nei sotterranei del Maschio Angioino: «È davvero allarmante», mi dice. «Bastarono 20 centimetri di quella roba per distruggere St. Pierre e uccidere tutti gli abitanti. In quella parte di Napoli non ci sarebbero superstiti».
Le testimonianze geologiche mostrano come, in un arco di tempo geologicamente recente, le eruzioni pliniane del Vesuvio si siano susseguite secondo un ritmo irregolare ma allarmante. Le eruzioni maggiori ebbero luogo 25 mila, 17 mila, 15 mila, 11.400 e 8.000 anni fa. Poi è seguita l’eruzione di Avellino, 3.780 anni fa, e infine quella di Pompei, nel 79 d.C., quindi quasi 2.000 anni fa. L'intervallo tra due eruzioni principali, dunque, sarebbe di circa 2.000 anni: basandosi su questo dato, Sheridan e Mastrolorenzo sostengono che ogni anno la probabilità che si scateni un’eruzione maggiore è superiore al 50 per cento, e che le chance aumentano man mano che gli anni passano e ci si allontana dall’ultimo grande evento pliniano. 

Queste previsioni così dirette hanno causato polemiche infuocate, soprattutto perché ipotizzano una minaccia per l’area metropolitana di Napoli. In realtà, Napoli non è contemplata nel piano d’emergenza messo a punto dalle autorità italiane nel 1995 e modificato l’ultima volta nel 2001. Il piano ipotizza un’eruzione subpliniana, quindi di portata minore, e prevede l’evacuazione di “sole” 600 mila persone: gli abitanti dei 18 comuni più vicini al cratere, la cosiddetta “zona rossa”. Enzo Boschi, presidente dell’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia, ha definito «allarmista e irresponsabile» l’analisi dei rischi effettuata da Sheridan, e ha annunciato che «i piani d’evacuazione non saranno cambiati». 

«L’articolo pubblicato da Pnas, fin dal titolo, è una descrizione del “peggior caso possibile”», conferma Giovanni Macedonio, studioso ed ex direttore dell’Osservatorio Vesuviano. «Ma l’intervallo di 2.000 anni non è affatto scontato: tra un’eruzione maggiore e l’altra ne sono passati anche 8.000. Anni di monitoraggio del Vesuvio e di studio delle eruzioni passate ci consentono di fare ipotesi diverse». Secondo i calcoli dell’Osservatorio, la probabilità che nei prossimi 150 anni circa si scateni un’eruzione devastante come quella di Pompei o, peggio, di Avellino, è intorno all’1 per cento; un’eruzione minore è data al 60 per cento, una di gravità media, sul 30. E su quest’ultimo dato si basano i piani della Protezione Civile. «In ogni caso, non abbiamo alcun segnale di imminente risveglio del vulcano», precisa Macedonio. 
La previsione a breve termine delle eruzioni vulcaniche è, nella migliore delle ipotesi, una scienza inesatta. Prima dell’eruzione del 1980, il Monte St. Helens, in Alaska, aveva dato crescenti segni di inquietudine; ma, secondo un rapporto del Servizio Geologico degli Stati Uniti, “nel mese precedente il quadro non si era modificato”. Di più: la stessa mattina del 18 maggio 1980, le apparecchiature di monitoraggio “non registrarono alcun cambiamento insolito che potesse essere interpretato come un segnale d’allarme per la catastrofe che sarebbe avvenuta solo un’ora e mezza più tardi”.

Se il Vesuvio desse segni di risveglio, i vulcanologi sono convinti di poter prevedere un’eruzione “in breve tempo”. Ma cosa significa, esattamente, “in breve tempo”? «Questo è il problema: non lo sappiamo», risponde Mastrolorenzo. «Non siamo certi di poter prevedere un’eruzione come ora possiamo prevedere un uragano». 

Non è bello spaventare la gente senza motivo, ma è ancora peggio rischiare che migliaia di persone terrorizzate si precipitino a fare la stessa cosa nello stesso momento. Penso a questo scenario un pomeriggio, chiuso in una macchina bloccata da un ingorgo sulla tangenziale di Napoli. Cosa succederebbe se il Vesuvio all’improvviso desse segni di seria agitazione? 

Come sempre accade quando ci si può basare soltanto su previsioni probabilistiche, regnerebbero confusione e incertezza. «È difficile immaginare come sarebbero i giorni prima di un’eruzione», ammette Mastrolorenzo. «Sarebbe peggio dell’eruzione vera e propria». Probabilmente una parte dei napoletani fuggirebbe ai primi cenni di turbolenza sismica, altri deciderebbero di restare, altri ancora potrebbero andarsene, e magari, dopo settimane o mesi di incertezza sismica, decidere di fare ritorno. Nella storia moderna non esistono precedenti di un’evacuazione urbana di tale portata.

Intanto, sulla tangenziale, le macchine avanzano a passo di lumaca; quattro file di veicoli fanno a gara per infilarsi nelle due corsie dirette a nord. Impiego quasi un’ora per percorrere un chilometro e mezzo, in una giornata in cui per la maggior parte della popolazione l’impegno più urgente è una gita al mare. Con un traffico del genere, qualsiasi piano di evacuazione sembra nulla più che una pia speranza. E infatti, nell’ottobre del 2006, durante un’esercitazione che simulava lo sgombero della zona rossa, il traffico sulla vicina autostrada Napoli-Pompei si è completamente bloccato, e un improvviso temporale ha ulteriormente complicato l’esodo. Le autorità hanno espresso soddisfazione per i risultati, ma i media parlavano di “ritardi e caos”. E si trattava di un’esercitazione ridotta, che coinvolgeva solo un centinaio di abitanti per ognuno dei 18 comuni della zona rossa.


Comunque sia, qualsiasi evacuazione dovrebbe essere già completata al momento di un’eruzione della portata di quella di Avellino. Il vulcano scaglierebbe nell’aria milioni, forse miliardi di metri cubi di cenere, roccia e detriti, che ricadrebbero a pioggia sul terreno, rendendo del tutto inutile qualsiasi mezzo di trasporto. Gli aerei non potrebbero volare. I treni non viaggerebbero. Macchine, autobus e motorini non riuscirebbero a muoversi sul manto di cenere, anche se fosse spesso soli 10 centimetri. 
Resterebbe un unico mezzo di trasporto, e di fuga: i piedi. Quattromila anni dopo l’evento di Avellino, gli abitanti della Campania sarebbero costretti, ancora una volta, a lasciare le loro impronte nella cenere.
 (30 settembre 2007) National Geographic - Italia

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