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mercoledì 22 aprile 2020

DESIDERIAMO RIPRENDERE UNO SCRITTO DEL FILOSOFO GIORGIO AGAMBEN PUBBLICATO IL 13 APRILE SCORSO SUL SITO DELL'EDITORE QUODLIBET. CI SEMBRA MOLTO PERTINENTE AGLI EVENTI CHE, COMPLICE L'EMERGENZA PANDEMICA, HANNO CANCELLATO D'IMPERIO LA NOSTRA VITA, SOCIALE E INDIVIDUALE, PER COME L'ABBIAMO CONOSCIUTA E VISSUTA FINO A UNA QUARANTINA DI GIORNI FA.
di Antonio Tortora
Tratto da www.dirittiglobali.it/
                                                                         Una domanda.

La peste segnò per la città l’inizio della corruzione… Nessuno era più disposto a perseverare in quello che prima giudicava essere il bene, perché credeva che poteva forse morire prima di raggiungerlo.
Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 53


Vorrei condividere con chi ne ha voglia una domanda su cui ormai da più di un mese non cesso di riflettere. Com’è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia? Le parole che ho usato per formulare questa domanda sono state una per una attentamente valutate. La misura dell’abdicazione ai propri principi etici e politici è, infatti, molto semplice: si tratta di chiedersi qual è il limite oltre il quale non si è disposti a rinunciarvi. Credo che il lettore che si darà la pena di considerare i punti che seguono non potrà non convenire che – senza accorgersene o fingendo di non accorgersene – la soglia che separa l’umanità dalla barbarie è stata oltrepassata.
 
1) Il primo punto, forse il più grave, concerne i corpi delle persone morte. Come abbiamo potuto accettare, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli, ma che – cosa che non era mai avvenuta prima nella storia, da Antigone a oggi – che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?
 
2) Abbiamo poi accettato senza farci troppi problemi, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, di limitare in misura che non era mai avvenuta prima nella storia del paese, nemmeno durante le due guerre mondiali (il coprifuoco durante la guerra era limitato a certe ore) la nostra libertà di movimento. Abbiamo conseguentemente accettato, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, di sospendere di fatto i nostri rapporti di amicizia e di amore, perché il nostro prossimo era diventato una possibile fonte di contagio.
 
3) Questo è potuto avvenire – e qui si tocca la radice del fenomeno – perché abbiamo scisso l’unità della nostra esperienza vitale, che è sempre inseparabilmente insieme corporea e spirituale, in una entità puramente biologica da una parte e in una vita affettiva e culturale dall’altra. Ivan Illich ha mostrato, e David Cayley l’ha qui ricordato di recente, le responsabilità della medicina moderna in questa scissione, che viene data per scontata e che è invece la più grande delle astrazioni. So bene che questa astrazione è stata realizzata dalla scienza moderna attraverso i dispositivi di rianimazione, che possono mantenere un corpo in uno stato di pura vita vegetativa.
Ma se questa condizione si estende al di là dei confini spaziali e temporali che le sono propri, come si sta cercando oggi di fare, e diventa una sorta di principio di comportamento sociale, si cade in contraddizioni da cui non vi è via di uscita.
So che qualcuno si affretterà a rispondere che si tratta di una condizione limitata del tempo, passata la quale tutto ritornerà come prima. È davvero singolare che lo si possa ripetere se non in mala fede, dal momento che le stesse autorità che hanno proclamato l’emergenza non cessano di ricordarci che quando l’emergenza sarà superata, si dovrà continuare a osservare le stesse direttive e che il “distanziamento sociale”, come lo si è chiamato con un significativo eufemismo, sarà il nuovo principio di organizzazione della società. E, in ogni caso, ciò che, in buona o mala fede, si è accettato di subire non potrà essere cancellato.
Non posso, a questo punto, poiché ho accusato le responsabilità di ciascuno di noi, non menzionare le ancora più gravi responsabilità di coloro che avrebbero avuto il compito di vegliare sulla dignità dell’uomo. Innanzitutto la Chiesa, che, facendosi ancella della scienza, che è ormai diventata la vera religione del nostro tempo, ha radicalmente rinnegato i suoi principi più essenziali. La Chiesa, sotto un Papa che si chiama Francesco, ha dimenticato che Francesco abbracciava i lebbrosi. Ha dimenticato che una delle opere della misericordia è quella di visitare gli ammalati. Ha dimenticato che i martiri insegnano che si deve essere disposti a sacrificare la vita piuttosto che la fede e che rinunciare al proprio prossimo significa rinunciare alla fede. Un’altra categoria che è venuta meno ai propri compiti è quella dei giuristi. Siamo da tempo abituati all’uso sconsiderato dei decreti di urgenza attraverso i quali di fatto il potere esecutivo si sostituisce a quello legislativo, abolendo quel principio della separazione dei poteri che definisce la democrazia. Ma in questo caso ogni limite è stato superato, e si ha l’impressione che le parole del primo ministro e del capo della protezione civile abbiano, come si diceva per quelle del Führer, immediatamente valore di legge. E non si vede come, esaurito il limite di validità temporale dei decreti di urgenza, le limitazioni della libertà potranno essere, come si annuncia, mantenute. Con quali dispositivi giuridici? Con uno stato di eccezione permanente? È compito dei giuristi verificare che le regole della costituzione siano rispettate, ma i giuristi tacciono. Quare silete iuristae in munere vestro?
So che ci sarà immancabilmente qualcuno che risponderà che il pur grave sacrificio è stato fatto in nome di principi morali. A costoro vorrei ricordare che Eichmann, apparentemente in buon fede, non si stancava di ripetere che aveva fatto quello che aveva fatto secondo coscienza, per obbedire a quelli che riteneva essere i precetti della morale kantiana. 
Una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà.
13 aprile 2020
Giorgio Agamben

Nota Bene: a questa significativa domanda del filosofo Agamben, ognuno di noi dovrà, presto o tardi, dare una risposta; e nessuno potrà tirarsi indietro qualunque cosa accada.
 

martedì 20 gennaio 2015

ESCURSIONE ANTROPOLOGICA DI ANTONIO TORTORA E STEFANO SPOSITO PRESSO DUE EREMI ABRUZZESI

Due luoghi incantati sospesi nel tempo per la loro antichità e nello spazio per il loro isolamento; la Chiesa medievale della Madonna del Casale situata al limite estremo della Piana delle Cinque Miglia a poca distanza dal paesino di Rocca Pia e l'Eremo di San Michele Arcangelo dell'anno mille, stando ad una antica iscrizione cassinese, ancora intatto alle pendici del Monte Pizzalto non lontano da Pescocostanzo.
Luoghi di solitudine e silenzi montani ma anche di fede e di preghiera, attualmente poco battuti dai pellegrinaggi ma sempre carichi di fascino per chi vive una fede semplice ed essenziale.
In particolare l'Eremo di san Michele Arcangelo è maggiormente frequentato per il persistere del culto micaelico che si spinge fino alle estremità garganiche attraversando non solo tutta l'Italia ma anche buona parte dell'Europa.




Chiesa della Madonna del Casale (o di Santa Maria del Carmine)

Comune:  Rocca Pia
Frazione:  località Colleguidone
Come arrivare:  A24/A25 RM-PE uscita Pratola Peligna-Sulmona/ proseguire sulla SS 17 direzione Roccaraso/ Rocca Pia da Napoli: A1 NA-RM uscita Caianello/ seguire indicazioni per Castel di Sangro/ Roccaraso/ Sulmona/ Rocca Pia
Notizie:  La chiesa della Madonna del Casale o di S. Maria del Carmine si trova all'inizio del Piano delle Cinque Miglia in una località denominata Colleguidone, pertinente al territorio di Rocca Pia. Non è subito visibile percorrendo l'ampia pianura delle Cinque Miglia perchè posta sul fianco della collina, in una posizione "nascosta" che forse ne accresce il fascino. Le origini della chiesa di S. Maria non sono molto chiare; l'odierna costruzione mostra elementi decorativi e architettonici che rimandano al Trecento, ma la sua fondazione può essere molto più antica, legata alle vicende dei villaggi che un tempo sorgevano nell'altipiano: Roccaduno, Casale S. Nicola e Casal Guidone. Dei tre insediamenti, sorti probabilmente in età normanna, non rimanevano che dei ruderi già nel 1474, dal momento che a quella data Flavio Biondo nella sua Italia Illustrata scriveva "questa campagna fu già abitata da molte ville, come per alcune ruine vi si scorge" (Italia Illustrata, ms.1474). Oggi non è visibile più alcuna traccia di questi antichi abitati, ma il nome Colleguidone è rimasto ad indicare la località dove appunto si erge la chiesa. Non si tratta quindi di una "chiesolina" di campagna, come l'ebbe a definire il Gavini, ma dell'ultima testimonianza di una piccola comunità che per alcuni secoli ha abitato queste terre, per poi trasferirsi, forse agli inizi del Quattrocento, nel paese di Rocca Pia. In seguito la chiesa è divenuta anche un sicuro riparo per i pastori ed i viandanti che affrontavano l'avventurosa traversata dell'altipiano delle Cinque Miglia. L'altipiano ha rappresentato nel corso dei secoli una fondamentale via di transito, poiché garantiva il collegamento tra il Nord e il Sud, tra Firenze e Napoli, evitando il passaggio per lo Stato Pontificio. La sua traversata era però particolarmente difficoltosa nella stagione invernale data l'altitudine e le abbondanti nevicate che ancora oggi lo investono. Lungo le pareti della chiesa sono ancora leggibili i graffiti lasciati dai viandanti in cerca di riparo. L'iscrizione più antica che vi si legge data 1675, mentre gli ultimi graffiti furono scalfiti nella notte tra il 15 e il 16 febbraio del 1863 dai soldati piemontesi, che qui ripararono durante una tempesta di neve. La chiesa della Madonna del Casale, realizzata in pietra locale, contrariamente alla consuetudine, apre l'unico portale di accesso lungo il fianco. Il portale ricorda in maniera abbastanza evidente le forme del portale realizzato per la chiesa di S. Agostino a Sulmona ed in seguito posto sulla facciata di S. Filippo. La datazione ad annum del portale sulmonese, il 1315, diviene dunque un importante termine post quem per il nostro, la cui realizzazione è da ritenersi eseguita entro la fine del Trecento, anche se il suo "gotico tardissimo" ha spinto alcuni a posticiparla fino ai primi del Quattrocento. Nel portale della Madonna del Casale un alto timpano decorato a gattoni ricade su due edicolette cuspidate composte da due ordini di archetti trilobi ciechi. Le sorreggono delle colonnine a sezione poligonale poste su un alto basamento con i capitelli decorati a foglie di acanto. Lo stesso motivo ad acanto orna la parasta e la colonna elicoidale che inquadra l'apertura e sale a contornare la lunetta. Del decoro ad affresco che ornava la lunetta non rimane più nulla, mentre ben conservato è il rilievo raffigurante l'Agnello Crocifero posto al centro dell'architrave. Accanto al portale si innalza la massiccia mole del campanile che ricorda più una torre di difesa e di avvistamento. All'interno la chiesa presenta un impianto ad aula rettangolare, presbiterio rialzato ed abside semicircolare; la navata è divisa da cinque archi traversi a tutto sesto ed è coperta da capriate a vista. Disposti lungo la parete absidale e nel giro della sua calotta troviamo degli affreschi raffiguranti scene della vita della Madonna e di Cristo, corredate di didascalia esplicativa. Ai lati della parete absidale è dipinta un'imponente Annunciazione: Maria è raffigurata seduta accanto ad una scrivania insieme ad una colomba bianca, simbolo del divino concepimento; dall'altro lato vi è l'Angelo con in mano il giglio, simbolo della purezza, in un abito caratterizzato da grandi e rigide maniche a sbuffo. E' alquanto frequente trovare dipinta nella parete dell'abside l'Annunciazione, sia perché è l'episodio che dà inizio al Nuovo Testamento e alla Nuova Vita, tradizionalmente prefigurata dalla concavità absidale, sia perché consente di raffigurare i personaggi separati, senza che la scena perda in unità e chiarezza. Sono piuttosto le dimensioni raggiunte dalle Vergine e dall'Angelo che rendono originale la composizione del pittore qui operante. Nel primo registro dell'abside troviamo la Visita di Maria ad Elisabetta (QVANO LA VERGINE VISITOE S. ELISABETTA), Gesù nel sepolcro e la Madonna della Neve; nell'ordine superiore il racconto continua con il Battesimo di Gesù (QVANO XPO FO BATIZATO DA SANTO IOVANNI BACTISTA AL FIVM IORDANO) e l'Ascensione (QVANO XPO SALLI IN CELO E CIO E LASSVMTIONE), mentre nell'ultimo registro è dipinto l'Eterno tra angioletti. E' singolare in una trattazione così concisa della vita della Madonna e di Gesù l'assenza di episodi importanti come la Natività o la Crocifissione, ed invece la presenza di un episodio secondario quale la Visitazione di Maria ad Elisabetta, scelta che sembrerebbe confermare l'ipotesi secondo cui la chiesa era dedicata in origine proprio alla Visitazione. Si intuisce anche che la scelta delle immagini è dettata più da esigenze dottrinali e devozionali che narrative per cui, dopo l'episodio della Visitazione, il racconto si interrompe per dar spazio a quadri a sé stanti come l'Uomo dei Dolori e la Madonna della Neve: Cristo nel sepolcro, nell'iconografia di sapore nordico dell'Uomo dei Dolori, è disposto a modo di pala d'altare proprio dietro la mensa, a ricordare visivamente il sacrificio che ad ogni celebrazione è rinnovato nell'Eucaristia; riguardo la raffigurazione della Madonna della Neve possiamo immaginare con quale particolare venerazione sia dipinta in un luogo così spesso tormentato dalle bufere invernali. Emerge in maniera abbastanza evidente dall'analisi delle scene la qualità popolare del pittore, che secondo il Savastano è da identificare con un artista locale, operante entro il XVI secolo. La chiesa conserva anche una copia della pregevole opera in terracotta del Cinquecento raffigurante una Madonna con il Bambino. L'originale si trova attualmente presso la parrocchiale di S. Maria Maggiore a Rocca Pia.


Eremo di San Michele Arcangelo

Comune:  Pescocostanzo
Tipologia:  Eremo/ Chiesa romitorio
Come arrivare:  A24/A25 RM-PE uscita Sulmona-Pratola Peligna/ proseguire lungo la SS 17 direzione Roccaraso/ Rivisondoli/ Pescocostanzo da Napoli: A1 NA-RM uscita Caianello/ seguire indicazioni per Castel di Sangro/ Roccaraso /Rivisondoli/ Pescocostanzo
Notizie:  A pochi chilometri dal paese di Pescocostanzo, alle pendici del Monte Pizzalto e vicino al tratturo proveniente dalla Valle Peligna, si trova la grotta-eremo di San Michele Arcangelo. Le prime notizie sul romitorio risalgono al 1183 e provengono dalla Bolla di papa Lucio III; non è comunque da escludersi un'origine più antica, sia per la posizione posta sulla via di transumanza sia per la vicinanza alla sorgente. In un'iscrizione cassinese del 1066 vengono nominate, per la zona di Pescocostanzo, ben 13 celle, facendo ipotizzare una naturale destinazione per chi scegliesse la vita ascetica. Scavato ai piedi di un banco roccioso, l'edificio presenta un fronte ad angolo, con il lato maggiore di circa 13 metri e quello minore di circa 5 metri. Il primo chiude la zona cultuale mentre il secondo quella abitativa. Sul lato principale si aprono due porte: la più ricca ed importante immette nella chiesa mentre quella secondaria, posta sul lato destro, conduce ad un vano laterale adibito a cappella funebre della famiglia Ricciardelli. Fra le due porte è stata ricavata una grande nicchia ad arco a tutto sesto, dove sono ancora visibili tracce di intonaco dipinto. Sull'architrave della porta principale è riportata l'iscrizione del restauro: SUMPTIBUS HAS PROPIIS PORTAS/ POSTESQUE BUBULCI/ ERECTAS DICANT ANGELE DIVE TIBI/ A.D. MDXCVIII. Più in basso si legge: BENEFATTORI BRAMOSI BENEFICA. Sull'arco della nicchia si trova invece la scritta: CONFALONIERE CELESTE CUSTODISCICI. La porta secondaria reca infine l'iscrizione : DUCE DIVINO DA DANNI DIFENDICI. L'ingresso principale è fiancheggiato da due piccole finestre a strombo; quello secondario ha una piccola luce con ampia cornice in pietra bianca su cui è stato inciso: LE LEGGEREZZE LASCI LEAL LETIZIA/ INIMICI IMPLICATI ISDEGNA INTENDERE/ GRAVATI GEMENDO GIUSTIFICATEVI. L'interno della chiesa è completamente pavimentato con larghe lastre di pietra che creano contrasto con la volta rocciosa non rifinita. Una lunga balaustra in pietra finemente lavorata chiude la parte più interna della grotta. A destra dell'ingresso una piccola colonna faceva da piede ad un'acquasantiera. Tutte le parti in pietra della grotta sono state restaurate negli ultimi anni dalla Soprintendenza. Nella zona presbiteriale si conservano i resti di un piccolo altare, obliquo rispetto all'asse della balaustra, e una piccola nicchia ricavata sopra un basso podio che anticamente ospitava la statuetta del Santo, ora custodita nella chiesa della Madonna del Rosario. La statuetta, probabilmente un ex voto, è scolpita in pietra locale e in stile semplice. Nella chiesa si conservano numerosi resti di lastre marmoree realizzate ad intarsio che dovevano rivestire l'altare; questo genere di decorazione è presente in molte chiese di Pescocostanzo. Tutto il perimetro presbiteriale è percorso da un basso sedile ricavato nella roccia, mentre sul lato sinistro, poco fuori dal presbiterio è posto il loculo di una sepoltura di cui non si ha nessuna indicazione. Sopra di esso un grande foro, ora murato, venne scavato dai tedeschi come uscita di sicurezza. La stanza adiacente presenta nell'angolo la sepoltura di Bartolomeo Ricciardelli del 1855 ed una lapide in ricordo di Giosafatte Ricciardelli del 1881. La parte abitativa è composta da due piani. Il piano superiore, posto sullo stesso livello della chiesa, comprende due piccole stanze ricavate nella roccia, comunicanti tramite una porta in pietra che reca l'iscrizione: FATICHE FREQUENTATE FORTIFICANO. La prima stanza è coperta con volta a botte, ha due finestre a strombo, una botola per scendere al piano inferiore e una piccola nicchia rotonda; al suo interno si conservano i resti di un sedile in pietra che corre lungo tutta la parete. La seconda, di piccole dimensioni, presenta una volta piana ed una sola finestra. Al piano inferiore, composto anch'esso da due stanze, si può accedere dal piano superiore tramite la botola oppure mediante una piccola porta. La zona abitativa, secondo la tradizione popolare, venne realizzata come ricovero di pastori transumanti, notizia confermata dalla vicinanza al tratturo e alla località "Il Riposo", dove facevano sosta le greggi.